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La programmazione neurolinguistica (PNL) nel dolore cronico.

Ripropongo una relazione che ho esposto al XIII congresso nazionale dell’AISD di Copanello nel 1990. E’ sempre rimasta all’interno del volume delle relazioni estese e mi sembra ancora valida e utile a quei medici che non conoscono la PNL, o la conoscono, e intendono curare il dolore senza essere invasivi.

In tutti i settori della Medicina si assiste ad una evoluzione delle tecniche diagnostiche e terapeutiche tendente alla minore invasività possibile.

Anche la fisiopatologia del dolore non fa eccezione al riguardo. Dalla neurolesione indiscriminata e poco controllabile del neurolitico chimico si è passati alla neurolisi ultramirata e selettiva della sonda a radiofrequenza, ma soprattutto il concetto stesso di neurolesione è stato messo in crisi dall’idea di modulazione del dolore.
Anche il concetto stesso di modulazione del dolore ha subito uno sviluppo, da una concezione puramente farmacologica alla cosiddetta modulazione sensoriale; ci si è in qualche misura accorti che le tecniche anestesiologiche, analogamente agli analgesici, rappresentavano un versante delle scelte possibili: la cosiddetta ipostimolazione, mentre si apriva l’enorme settore dell’iperstimolazione.

Questo settore, che va considerato globalmente con l’appellativo di riflessoterapie, è sicuramente il più composito e variegato; uno stimolo efficace provoca, nella maggioranza dei casi, una riposta che appare per certi versi geneticamente predeterminata; la cura della patologia dolorosa si ottiene come fatto collaterale a questa risposta complessa dell’organismo.

Il passo ulteriore verso la diminuzione dell’invasività terapeutica consiste nell’impiego di tecniche di medicina comportamentale, sino ad arrivare alle tecniche cognitive.

La Programmazione Neurolinguistica si situa in questo settore terapeutico, come nuovo modello della comunicazione e del comportamento umano.

Non è una teoria, non si fonda su principi bensì è un modello immanentemente operativo che non si preoccupa di concetti di verità, ma di descrivere dettagliatamente qualsiasi attività concettuale umana.

E’ la sistematizzazione operativa di procedure che, inconsapevolmente, vengono utilizzate dai cosiddetti “modelli di eccellenza”, medici o psicoterapeuti a cui universalmente viene riconosciuto il tocco terapeutico.

E’ la struttura dell’esperienza; qualora venga usata in modo sistematico, costituisce una strategia globale per ottenere modificazioni a livello comportamentale.

L’approccio al dolore cronico si inserisce in pieno nel modello multidimensionale dell’esperienza dolorosa, proposta da Melzack e Casey nel 1968.

Modificando con procedure adeguate la rappresentazione mentale dell’esperienza dolorosa passata, si esita nella modificazione della coloritura affettiva dell’esperienza dolorosa attuale, arrivando così a condizionare la risposta effettrice del dolore; in ultima analisi, si modifica il comportamento doloroso.

Più che sulla componente sensitivo-discriminativa del dolore, si interviene sulla componente affettivo-motivazionale, utilizzando a nostro vantaggio i processi centrali di controllo.

Il fine da perseguire è sicuramente esaltante: curare un paziente utilizzando il suo cervello con le sue immense risorse.

Come in ogni altra disciplina, l’approccio al paziente in corso di terapia del dolore dipende da alcune variabili:
– dal livello di sviluppo della Società e dalla qualità della richiesta sociale;
– dal livello della conoscenza scientifica in generale;
– dall’esistenza di modelli interpretatici specifici che inquadrino i fenomeni su cui si opera.

La maturazione della consapevolezza che il perseguimento della qualità della vita non è un lusso, ma è un bisogno, ha determinato una radicale modificazione del concetto stesso di stato di salute. Esso non va più inteso come semplice assenza malattia, bensì come uno stato di benessere psico-fisico atto a favorire la piena valorizzazione esistenziale dell’individuo.

Una tale concezione, affermatasi nel secondo dopoguerra, ha comportato un profondo mutamento nei confronti della sofferenza dolorosa cui, in tempi passati, venivano attribuite eccessive qualità positive (utile campanello d’allarme) o di ineluttabilità.

In sostanza non si riusciva a distinguere fra dolore acuto e cronico, tra un dolore, quindi, che può rivestire una funzione di conservazione dell’integrità dell’organismo, dalla cosiddetta malattia dolorosa. Valga per tutti l’esempio del dolore da parto che veniva considerato un “male beneficamente necessario” da sopportare con serena rassegnazione.

Si è quindi passati da un non approccio al dolore, ad un approccio.

Un altro fattore che ha permesso un salto di qualità nella conoscenza del dolore si deve al progresso registrato in discipline come la neurofisiologia, la neurochimica e l’informatica, che hanno fornito mezzi d’indagine sempre più raffinati ed analitici per lo studio della fisiopatologia della nocicezione.

In questo contesto di particolare favore si è realizzato il terzo e, forse, più importante fattore di conoscenza sul dolore: la creazione di un modello interpretativo dell’integrazione centrale dello stimolo doloroso; la GATE CONTROL THEORY di Melzack e Wall (1).

Più che una vera e propria teoria, essa è un modello interpretativo che ha permesso l’inquadramento di alcuni fenomeni clinici su cui fino a quale momento non era stata fornita un’interpretazione soddisfacente: l’allodinia e la sommazione spazio-temporale degli stimoli dolorosi.

Questo modello ha subito delle critiche sostanziali; studi successivi (2) hanno infatti evidenziato come a livello delle corna dorsali l’inibizione sia soprattutto postsinaptica e non presinaptica come affermavano gli Autori (1) i quali, successivamente, hanno rimaneggiato essi stessi la teoria iniziale (3).

Ciononostante, la sola esistenza di questo modello ha reso possibile un’enorme accelerazione della ricerca scientifica che ha sfruttato nuove conoscenze ed acquisizioni di rilievo nella comprensione dei meccanismi antinocicettivi.

E’ inoltre esistita, per la prima volta, la possibilità di ipotizzare su basi scientifiche un meccanismo d’azione che inquadrasse i fenomeni riflessoterapici (agopuntura, TENS, etc,).

Si erano gettate le basi scientifiche per poter passare da una vecchia visione del fenomeno doloroso ad una nuova, meno falsificabile.

La “TEORIA DELLA SPECIFICITA’ DEL DOLORE” infatti, affondava le sue radici nella concezione di Cartesio del 1644 definita “TEORIA DEL CAMPANELLO D’ALLARME” ed era stata formulata con un certo rigore scientifico nel 1840 da Muller (4) e ripresa successivamente da Schiff nel 1848 (5) e da Von Frey nel 1895 (6).

Secondo tale teoria il dolore viene considerato una sensazione specifica, analoga ad altre modalità sensoriali quali il tatto, la vista e l’udito che, dopo essere stato determinato dall’adeguata stimolazione dei recettori nocicettivi, verrebbe convogliato da apposite fibre nel midollo spinale e successivamente, attraverso il fascio spino-talamico, sino al talamo.

Dal talamo esso si sarebbe irradiato sino alla corteccia ove diventa una sensazione cosciente ed assume la coloritura psico-affettiva.

Ecco quindi che la percezione e la valutazione, le reazioni motivazionali ed affettive scatenate dalla nocicezione, venivano relegate a “reazioni al dolore”.

Una tale concezione dell’esperienza dolorosa presenta alcuni limiti:
– tiene conto di una sola caratteristica del dolore: l’intensità.
– si può adattare, in certa misura, solamente ad un caso particolare di dolore, il dolore sperimentale in cui la sofferenza dolorosa è correlabile alla quantità di energia applicata.

– Non offre un quadro sufficientemente esaustivo della complessità dell’esperienza del dolore clinico.
– Ha offerto un supporto teorico alle tecniche neurolesive che, dopo adeguata sperimentazione, si sono dimostrate meno valide di quanto sembravano promettere.

Il nuovo modello interpretativo sul dolore, conseguente alla teoria del cancello, è: l’APPROCCIO MULTIDIMENSIONALE DELL’ESPERIENZA E DEL COMPORTAMENTO DOLOROSO, enunciato da Melzack e Casey nel 1968 (7).

Secondo questo modello:
1) la dimensione sensitivo-discriminativa del dolore sarebbe determinata dall’attività dei sistemi spino-corticali a rapida conduzione paucisinaptici (colonne dorsali, lemnisco mediale e talamo ventro-basale).
2) L’attività motivazionale e la coloritura affettiva spiacevole del dolore sarebbe dovuta all’attività delle strutture reticolari e limbiche a cui afferiscono i sistemi di conduzione lenti, multisinaptici (formazione reticolare del tronco, talamo mediale, sistema limbico).
3) Talamo e corteccia, esercitando la valutazione ultima dell’input doloroso, sono in grado di confrontarlo con l’esperienza passata e di esercitare un controllo sui due sistemi precedenti.

Dall’interazione di questi tre livelli di integrazione dello stimolo algico ne risulta una elaborazione completa che informa su:
– Localizzazione;
– Dimensione;
– Proprietà spazio-temporali:
– Riflessi di fuga o di attacco;
– Confronto con l’esperienza passata;
– Differenti strategie di comportamento.

Non è un caso che Melzack abbia contribuito all’ideazione dei modelli sulla modulazione sensoriale e cognitiva del dolore; in precedenza infatti, aveva pubblicato un lavoro clinico sull’impiego di stimoli auditivi e suggestivi come metodo di controllo del dolore (8).

Si erano quindi, definitivamente, gettate le basi scientifiche e culturali per consentire al terapeuta del dolore di passare dalle tecniche neurolesive ed anestesiologiche alla modulazione farmacologica; per valorizzare appieno la modulazione sensoriale sino ad arrivare all’impiego delle tecniche di medicina comportamentale, con l’obiettivo ultimo di sviluppare la MODULAZIONE COGNITIVA DEL DOLORE.

Mentre con le tecniche comportamentali (meditazione, training autogeno, biofeedback, etc.) si persegue l’obiettivo di estinguere il comportamento patologico (contrattura muscolare, vasocostrizione, sudorazione, tachicardia e tachipnea) attraverso una rieducazione basata sull’apprendimento, la strategia cognitiva utilizza gli eventi nell’ambito del pensiero cosciente per incidere sull’attenzione al fenomeno doloroso, sulla cenestesi e sull’immaginazione.

La classificazione delle strategie utilizzate nella sperimentazione nella clinica possiede un’origine squisitamente empirica, desunta dall’osservazione di come, in generale, i pazienti operano per diminuire la sofferenza indotta dalla nocicezione.

Tali strategie sono raggruppate in 6 categorie fondamentali (9, 10):
1) EFA – FOCALIZZAZIONE ESTERNA DELL’ATTENZIONE;E’ la deviazione dell’attenzione dal sito della sofferenza ad un soggetto esterno al corpo.
2) NI – IMMAGINI NEUTRE; Vengono generate immagini neutre dal punto di vista emotivo; né piacevoli, né spiacevoli.
3) DC – SCHEMI DI DRAMMATIZZAZIONE; Ricostruzione drammatizzata del contesto in cui si è sviluppato il dolore o esasperazione ragionata del comportamento doloroso.
4) RCA – ATTIVITA’ COGNITIVA RITMICA;Attività di natura ripetitiva; ad es. contare da 100 a zero in intervalli di 7.
5) PA – RIDEFINIZIONE DEL DOLORE; Rielaborazione della stimolazione dolorosa in termini sensitivo-discriminativi, focalizzando l’attenzione in una sensazione concomitante non direttamente dolorosa (peso, caldo),
6) PI – IMMAGINI PIACEVOLI; Evocazione immaginativa di situazioni piacevoli.

Dal punto di vista teorico, le presenti strategie sembrano inquadrabili in un unico modello, che si basa sulla consapevolezza che la capacità e le possibilità di esercitare l’attenzione, anche al dolore, sono caratteristiche non infinite.

Deviando cognitivamente parte dell’attenzione su un soggetto, un’immagine o un processo, se ne diminuisce il livello disponibile alla nocicezione e quindi alla sofferenza dolorosa (11).

La Programmazione Neurolinguistica (PNL) è un modello del comportamento e della comunicazione umani; è lo studio sistematico della struttura dell’esperienza soggettiva umana.

La sua stessa denominazione: programmazione neurolinguistica, indica il procedimento utilizzato da tutti gli esseri umani per codificare, trasferire, guidare e modificare il comportamento.

La PNL è il frutto dell’opera di uno psicologo e matematico, Richard Bandler, e di unfilosofo studioso di linguistica, John Grindler, che si sono dedicati allo studio dei cosiddetti “modelli di eccellenza”, medici e psicoterapeuti di orientamento teorico diverso, che riescono ad ottenere una costanza di risultati positivi notevole e fuori dal comune.

Essi sono riusciti ad individuare e studiare quel “quid” in più che hanno tali soggetti, in termini di comportamenti specifici e riproducibili, sia autonomi che in risposta a stimoli liminali o subliminali inviati dai pazienti, atti a sviluppare al massimo grado possibile il rapporto fra il terapeuta e l’emisfero non dominante del paziente.

Le caratteristiche principali della PNL sono tre:
– La valorizzazione delle capacità creative ed organizzatrici della mente inconscia; considerazione che porta a confidare nelle risorse del cervello umano.
– L’individuazione e lo studio analitico dei processi sensoriali tramite cui l’individuo organizza al suo interno le informazioni provenienti dalla realtà esterna, integrandole con quelle già esistenti, e la descrizione delle strategie di decodificazione che influenzano i comportamenti manifestati in risposta agli stimoli.
– L’organizzazione di un sistema di strategie terapeutiche (e/o psicoterapeutiche) semplici, basate sulla capacità del terapeuta di entrare in rapporto privilegiato con l’emisfero non dominante del paziente.

L’obiettivo che si pone il programmatore neurolinguistico è di guidare il paziente ad una ristrutturazione funzionale delle sue strategie interne, per favorire il raggiungimento della meta terapeutica.

La prima tappa, nel conseguimento di tale obiettivo, appare essere l’istruzione del medico a sviluppare con il suo paziente questo particolare tipo di rapporto:
– INDIVIDUAZIONE DEI COSIDDETTI SEGNALI DI ACCESSO (visivo, acustico o cenestesico)
– TECNICA DEL RICALCO E DELLA GUIDA;
– MASSIMA FLESSIBILITA’ COMPORTAMENTALE;
– DIREZIONALITA’ NEGLI OBIETTIVI.

Una volta conseguito l’aggancio del paziente, le tecniche della PNL che appaiono più adatte all’approccio terapeutico del dolore sembrano essere:
– La sottomodalità;
– La dissociazione visivo/cenestesica;
– La ristrutturazione ovvero l’induzione del cambiamento del significato di uno stimolo o di un comportamento.

Le sottomodalità sono elementi universali da utilizzare per manipolare e cambiare qualsiasi immagine visiva, auditiva o cenestesica, quale che sia il suo contenuto.

Se si chiede al paziente di descriverci il suo dolore, egli lo farà in termini visivi, acustici o
Cenestesici. Es.:
– “Dove ho il dolore, mi sembra di vedere un pozzo con dei carboni accesi sul fondo, che mandano dei bagliori rossastri”.
– “Il mio dolore è come un fischio acutissimo che mi perfora il capo e non mi dà tregua”.
– “Dove ho il dolore sento una sensazione di peso e la parte mi sembra più grossa e pesante”.

Vengono riportate alcune sottomodalità visive delle immagini, su cui si può lavorare:

– COLORE – NITIDEZZA
– DISTANZA – CONTRASTO
– PROFONDITA’ – MOVIMENTO
– PERSISTENZA – CAMPO
– TRASPARENZA – SFONDO

Sottomodalità acustiche:

– ALTEZZA – DISTANZA
– VOLUME – ASPREZZA
– RITMO – DURATA
– LOCALIZZAZIONE – FONTE INTERNA/ESTERNA
– SUONO CONTINUO
O INTERMITTENTE
– LOCALIZZAZIONE
– NUMERO
– TIMBRO/TONALITA’

Sottomodalità cenestesiche

– QUALITÀ – PRESSIONE
– INTENSITÀ – TEMPERATURA
– LOCALIZZAZIONE
– MOVIMENTO
– DIREZIONE
– VELOCITÀ
– DURATA

Qualsiasi immagine egli generi, l’elaborazione e la modificazione di tale immagine sembra essere in grado di modificare, parallelamente, l’entità della sofferenza dolorosa.

Anche se la PNL può essere annoverata tra le tecniche cognitive, essa in realtà appare essere un insieme di procedure atte a comunicare con il cervello non dominante del paziente.

Il suo impiego nella terapia del dolore non va visto avulso da tutte le metodiche che attualmente vengono utilizzate, ma integrato con queste, per il perseguimento di un’ottimizzazione del risultato.

In sostanza, si tratta di avere metodo riproducibile per ottenere un alleato in più nella clinica di tutti i giorni: IL CERVELLO DEL PAZIENTE, con tutte le sue potenzialità e le sue risorse.

BIBLIOGRAFIA
1)MELZACK R., WALL P.D.: Pain mechanism: A new theory. Science, 150, 971, 1965.
2)HONGO T., JANKOWSKA E., LUNDBERG A.: Postsynaptic excitation and inibition from primary afferents in neurons of the spinocervical tract. J.Physiol. (Lond) 199, 569, 1968.
3)MELZACK R., WALL P.D.: The challenge of pain. Basic Books, New York, 1982.
4)MULLER J.: Handbuch der Physiologie: Muskel und Menschen fur Vorlesungen. Hollsher, Koblenz, 1840.
5)SHIFF M.: lehrboch der Ohysiologie: Muskel und Nerven physiologie. Schauenburg, Fhar., 1, 228, 1848.
6)VON FREY M.; Die Geuhle unf ihr Verhaltinz zu den Empfindungen in: Beitz Z., Physiologie del Schmerzinnes. Berichte uber schaften, Leipzing, 1848.
7)MELZACK R., CASEY K.L.: Sensory, motivational and central control determination of pain: a new conceptual model. In: The skin senses, Ed.D. Kenshalo, Charles C. Thomas, 423, 1968.
8)MELZACK R., WEISZ A.Z., SPRAGUE L.T.: Stratagems for controlling pain: contributions of auditory stimulation and suggestion. Exp. Neurol., 8, 239, 1963.
9)WACK J.T., TURK D.C.: Latent structure in strategies for coping with pain. Hlth Psycol., 3, 27, 1984.
10)FERNANDEZ E., TURK D.C.: The utility of cognitive coping strategies for altering pain perception: a meta-analysis. Pain, 38, 123, 1989.
11)McCAUL K.D., MALOTT J.M. : Distraction and coping with pain. Psychol. Bull., 95, 516, 1982.

 

F. Ceccherelli, E. Varotto, L.Altafini, A. Stefecius e G.P. Giron, La programmazione neurolinguistica nell’approccio al dolore cronico.  pubblicato sul volume degli abstracts del XIII Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana per lo studio del dolore, Copanello, 25-27 maggio 1990, pp.17-24.

A cura di: Francesco Ceccherelli

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